Una donna colpita in pieno centro, un gesto apparentemente senza movente: l’analisi psicologica di un attacco che svela il disagio di una società

“Un pazzo, un pazzo” Sono le ultime parole sussurrate da Anna Maria Valsecchi al marito, con un coltello conficcato nella schiena. Due parole che raccontano l’orrore di un gesto incomprensibile, ma anche la tragedia silenziosa di una società che non sa più leggere la follia, la solitudine, la rabbia malata che cova dietro certi uomini disfunzionali. Vincenzo Lanni, 59 anni, bergamasco, ha confessato: non conosceva la donna, non la seguiva, non la odiava. L’ha scelta “a caso”. Una vittima simbolo in un luogo simbolo: piazza Gae Aulenti, epicentro del potere economico milanese. L’ha detto lui stesso, con un linguaggio che rivela molto più di quanto sembri. Perché non è un gesto casuale, ma una rappresentazione simbolica del rancore verso un mondo che percepiva come nemico. Dietro la lama, dietro la furia cieca, c’è una mente che implode sotto il peso di un disagio esistenziale profondo: un uomo che si sente escluso, respinto, abbandonato. Non solo dalla società, ma soprattutto da sé stesso.

Il rancore come identità e la misoginia esistenziale

Lanni aveva già accoltellato in passato. Nel 2015, due pensionati. Senza motivo, apparentemente. Ma la logica della follia non segue la ragione: segue il dolore, la rabbia, la distorsione della realtà. È la rabbia dell’uomo che non accetta il fallimento, che percepisce il proprio vuoto come un torto subito. E quando la frustrazione non trova un linguaggio, diventa violenza. Il suo è un caso emblematico di ciò che in psicologia si definisce rabbia compensatoria: un meccanismo distruttivo con cui un individuo tenta di ristabilire un controllo illusorio sul mondo. L’aggressione, allora, non è più solo un gesto impulsivo, ma una dichiarazione di guerra contro ciò che rappresenta il potere, il successo, l’ordine. In questo caso, una donna. Dirigente, indipendente, simbolo di autorevolezza e competenza. Una figura femminile che, inconsciamente, diventa per l’aggressore l’emblema di un sistema che lo ha respinto. Lanni non ha agito per odio personale, ma per una forma più profonda di misoginia esistenziale. Non quella urlata o dichiarata, ma quella che nasce dal senso di inadeguatezza e dall’incapacità di tollerare la forza femminile. Il misogino disagiato non è sempre un uomo che odia le donne: spesso è un uomo che non sa convivere con la propria fragilità e proietta sull’altro sesso tutto il disprezzo che prova per sé stesso. In questa logica distorta, la donna diventa un bersaglio simbolico. Non più un essere umano, ma un’entità da ferire per esorcizzare la propria impotenza emotiva. Non è un caso che la vittima sia una professionista, in un luogo che rappresenta il potere e il successo. Per un individuo fragile, solo e disfunzionale, quell’immagine di forza può diventare insopportabile. Non è la persona che colpisce, ma ciò che rappresenta: il potere femminile, la stabilità, l’autonomia.

Il fallimento della cura e il simbolismo della follia

Lanni era in cura per disturbi psichiatrici, aveva trascorso anni in una struttura e da poco era stato inserito in un percorso di reinserimento. Poi, l’allontanamento. L’ennesimo fallimento. La società gli aveva dato una possibilità, ma non un senso. Le cure psichiatriche possono stabilizzare i sintomi, ma non sempre riescono a ricostruire l’identità di chi vive dentro un vuoto affettivo e relazionale profondo. In questi uomini, la fragilità mentale si somma a un analfabetismo emotivo: non sanno gestire la frustrazione, né elaborare il rifiuto. Si sentono privi di valore, e quando la realtà non conferma la loro esistenza, la violenza diventa un modo per “sentirsi vivi”. La lama che affonda nel corpo della vittima è, in fondo, una metafora del tentativo disperato di lasciare un segno nel mondo. Anche se quel segno è di sangue. Scegliere “un luogo simbolo del potere economico” non è una casualità. È una messa in scena. Lanni non ha colpito solo una donna, ma ciò che lei rappresentava nel suo immaginario: il potere, l’autonomia, la riuscita sociale. Tutto ciò che lui non ha mai avuto. È l’odio del fallito verso il successo, del debole verso il forte, del dipendente emotivo verso chi vive libero. Ma è anche un grido disperato di chi, pur curato, è rimasto invisibile. Lanni viveva al margine, isolato, forse abbandonato da un sistema che cura il corpo ma non sempre ascolta l’anima. E quando l’anima implode, il mondo diventa il bersaglio.

Una ferita collettiva nel nostro tempo

L’accoltellamento di Milano non è solo un fatto di cronaca, ma un sintomo. Un sintomo del malessere maschile contemporaneo, di quella fragilità che si nasconde dietro l’odio, il risentimento, la solitudine. Uomini che non sanno chiedere aiuto, che confondono il fallimento personale con un complotto del mondo contro di loro, che si trasformano in bombe a orologeria. Dietro la definizione di “pazzo” c’è sempre un dolore antico. Ma la follia non giustifica, spiega. E spiega un disagio che riguarda tutti noi: la perdita di empatia, la mancanza di reti, l’abbandono degli invisibili. Perché ogni volta che un uomo cade fuori dal sistema senza che nessuno lo veda, una parte della società smette di essere umana. E in quella piazza moderna, scintillante, simbolo di potere e progresso, la follia di Lanni ha scavato una ferita che va ben oltre il sangue: è la ferita del nostro tempo, incapace di curare la solitudine, la rabbia e il vuoto di chi non sa più amare né sé stesso né gli altri.

A cura di Barbara Fabbroni

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