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Daniele Radini Tedeschi: Dalì e Amanda, passione casta

Redazione | 17 Maggio 2023

L’uscita del film Daliland è occasione per ripercorrere la vita, le opere e gli incontri del fondatore del Surrealismo

Un film su Dalì

Il film Daliland, diretto da Mary Harron e in uscita nelle sale cinematografiche italiane il 25 Maggio, racconta in maniera biografica la personalità di una delle icone del Ventesimo secolo, il pittore spagnolo Salvador Dalí, padre del Surrealismo e figura bizzarra quanto provocatoria.

Attraverso una narrazione attenta agli aspetti esteriori e psicologici, la pellicola indaga il mondo estetizzante del singolare artista, circondato da mondanità, feste, mercanti d’arte spregiudicati, falsari e comparse di ogni tipo.

Ma chi era davvero il signore stravagante che aveva fatto dei suoi lunghissimi baffi, dalle punte affusolate, un’opera d’arte?

Chi era l’artista

Forse l’immagine più autentica, giunta fino a noi, è una fotografia in bianco e nero che lo ritrae dare un finto bacio a Andy Warhol. Nello scatto sono presenti due personalità agli antipodi.

Da un lato Dalí, che fece di se stesso un uomo surreale – a tal proposito, nel definire la sua avanguardia era solito dire: “Il Surrealismo sono io”. Dall’altro Andy, re della Pop Art, aperto alle tecnologie, alla finzione, all’artificio.

E così i baffi scultorei dell’artista spagnolo cedono il passo all’intervento di rinoplastica e alle parrucche, prima bionde poi argento, dell’artista statunitense.

Dalí credeva nel pennello, nel figurativo, e ogni provocazione – pensiamo a quando venne fotografato mentre portava a spasso, lungo le vie di Parigi, anziché un animale domestico nientemeno che un gigante formichiere! – era drammaticamente realistica.

Egli puntellava le sue paranoie entro i binari fisici del sogno, dell’incubo, della premonizione dove il Surrealismo mirava a correggere la visione razionale e borghese della realtà, oltre ogni preoccupazione morale. Solo nutrendosi del delirio, delle ossessioni e delle perversioni Salvador creava un linguaggio unico fino allora, volto alla materializzazione dell’irrazionalità e dei fantasmi interiori.

Un dandy passato per la Storia

Quanto al carattere, il pittore spagnolo era eccentrico, sul modello del dandy wildiano o baudeleriano. Tuttavia aveva saputo conferire a quel cliché un nuovo significato: se Wilde rimaneva ancora un bizzarro esteta ottocentesco, Dalí aveva fatto i conti con la psicanalisi, la guerra, l’Olocausto, l’atomica.

In un certo senso il dandismo era al passo con la Storia. Tanto che quei mustacchi tesi verso l’alto – nati come reazione ai baffetti di Hitler e a quelli foltissimi di Nietzsche – oltre a divenire un marchio di fabbrica rivestivano il ruolo di antenne, capaci di orientare in un tempo tristemente segnato.

Da Gala ad Amanda Lear

E come ogni carattere complesso, Salvador aveva bisogno almeno di un punto fermo nella vita, trovandolo nella moglie Gala. Il loro era un rapporto culturalmente stimolante, fatto di complicità negli affetti e nel lavoro. Tanto che dal 1930 alcuni quadri furono firmati “Gala-Salvador Dalí”.

Anche quando, nel 1965, il maestro spagnolo incontrò Amanda Lear, scegliendola come sua modella per gli anni a venire, quest’ultima dichiarò che Gala a quei tempi non nutrisse alcuna gelosia. A tal punto da confidarle: “Se mio marito ha bisogno della tua presenza per creare e per dipingere, a me sta bene. Ti do le chiavi di casa e ti faccio vedere la tua stanza”.

Il rapporto con Gala sancì un’unione indissolubile col pittore, fino alla fine dei loro giorni. Salvador disse: “Amo Gala più di mia madre, più di mio padre, più di Picasso e persino più del denaro”.

La loro unione, talmente eterna e totalizzante, apparirebbe oggi, nell’era dell’individualismo assoluto, “surreale”. Solo Gala fu in grado di salvarlo dai tormenti: “Lei mi guarì, grazie alla potenza indomabile e insondabile del suo amore: la profondità di pensiero e la destrezza pratica di questo amore surclassarono i più ambiziosi metodi psicanalitici”, dichiarò l’artista.

Senza Gala, probabilmente Salvador non sarebbe stato Dalí.

a cura di Daniele Radini Tedeschi