Il paradosso del fast fashion: quando la generosità diventa un’illusione
La corsa ai capi low cost riempie i nostri armadi e i cassonetti, ma svuota il senso autentico della solidarietà…
La corsa ai capi low cost riempie i nostri armadi e i cassonetti, ma svuota il senso autentico della solidarietà
Il fast fashion è diventato un riflesso quasi automatico: si entra in un negozio o si scorre un’app, si riempie il carrello virtuale e, per pochi euro, si aggiunge l’ennesimo capo a un guardaroba già strabordante. Il problema non è solo estetico o ambientale. È anche sociale, e assume contorni sempre più complessi man mano che questi abiti, spesso indossati pochissimo, finiscono nei contenitori dedicati alla raccolta solidale. Un gesto che, nelle intenzioni, dovrebbe aiutare chi ha davvero bisogno. Ma che, nella realtà, finisce troppo spesso per trasformarsi in un’operazione fallimentare.
La Porticina della Provvidenza
A Bologna, nel cuore di una città che ha sempre fatto della solidarietà un tratto identitario, lo sanno bene. «Siamo in piena emergenza», racconta senza giri di parole Ilaria Dorigo, responsabile dell’associazione La Porticina della Provvidenza, un presidio di aiuto concreto per persone senza fissa dimora e famiglie in difficoltà. L’idea comune è che i contenitori di abiti usati siano una sorta di serbatoio utile e immediato per chi non può permettersi capi nuovi. La realtà è ben diversa: «Noi doniamo soprattutto ai senza fissa dimora e abbiamo bisogno di felpe, maglioni, jeans. E invece ci ritroviamo con tantissimi indumenti da donna e bambino, molti comprati da grandi catene o piattaforme di shopping online».
Il cortocircuito
Il risultato è un cortocircuito che rende evidente l’impatto devastante del fast fashion anche sul circuito della solidarietà. Molti dei capi donati sono di qualità talmente bassa da non poter sopravvivere nemmeno a un ciclo di utilizzo solidale. Tessuti sintetici che si sfaldano, cuciture che cedono, materiali impossibili da riciclare. Così, anziché finire nelle mani di chi ha freddo e non ha niente da indossare, finiscono direttamente nella filiera dei rifiuti, generando costi, ingombro e l’inevitabile sensazione che qualcosa, nel meccanismo complessivo, sia irrimediabilmente rotto.
Sul fondo di questo problema c’è un cambiamento strutturale del nostro rapporto con i vestiti. Indossiamo poco, consumiamo tanto e gettiamo tutto in tempi sempre più rapidi. Il gesto del donare, che un tempo implicava cura, selezione e responsabilità, si è trasformato in un modo per alleggerire la coscienza e fare spazio nei cassetti, più che nei cuori. E nei centri di raccolta come quello di Dorigo, questo cambiamento si vede ogni giorno, tra sacchi pieni di abiti praticamente nuovi ma già inutilizzabili.
L’outlet del superfluo
Le voci che arrivano dalle associazioni, non solo a Bologna ma in molte città italiane, indicano una tendenza comune: un crescente afflusso di abiti inutili per chi vive per strada e una cronica mancanza di capi caldi, robusti, funzionali alla vita all’aperto. È un paradosso che stride con l’immaginario collettivo della beneficenza e che alimenta anche un certo malcontento all’interno delle stesse organizzazioni: la sensazione che la solidarietà spontanea si stia trasformando in una sorta di “outlet del superfluo”.
E intanto, tra gli addetti ai lavori, circolano rumors sempre più insistenti su possibili misure restrittive nella raccolta di abiti fast fashion, con l’idea di limitarne l’impatto o di convogliare le donazioni verso canali più mirati. Nulla di ufficiale, ma abbastanza da far capire che il tema è diventato urgente e che ignorarlo non è più possibile.
La verità è che l’emergenza non riguarda solo chi riceve, ma anche chi dona. Donare bene, oggi, significa pensare prima di agire, informarsi, guardare i capi che si stanno mettendo nel sacco con un occhio più critico e meno superficiale. La solidarietà, quella reale, non si misura in chili di vestiti abbandonati nei cassonetti, ma nella capacità di rispondere ai bisogni veri delle persone, anche quando questo richiede un passo in più. E forse proprio da questo passo dipende il modo in cui immagineremo il valore, non solo economico ma umano, dei nostri vestiti.
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