Vedo un ragazzo, lo lego a una persona che conosco bene, ma è impossibile che sia lui, saluto comunque e passo oltre, mentre esco dal dietro le quinte di Domenica Live, la trasmissione di Barbara d’Urso. Lui mi guarda con gli occhi intensi, ma capisce il mio dubbio e va oltre anche lui, accompagnando Serena Grandi. Passano dieci minuti e chiamo Serena: «È Dario Biolcati con te?».

«Sì, è lui». «Digli di chiamarmi». Chi è Dario? Per sette anni è stato l’assistente personale di Valeria Marini, l’ho conosciuto con lei. Una persona affettuosa, capace, educata, pure bello. Poi un giorno, era il 29 marzo del 2013, leggo di lui su La Stampa (e su tutti i quotidiani). Il titolo: “Milano, uccide la madre e tenta il suicidio in hotel”. Il testo: “«Arrivederci». Questo è l’ultimo messaggio che Dario Biolcati ha scritto su Facebook prima di chiudersi in una camera d’albergo con la madre, a Milano, uccidere la donna
e poi cercare di suicidarsi. La madre, Elena Monni, 59 anni, è stata trovata morta con i polsi tagliati e un sacchetto di plastica vicino al corpo, mentre Biolcati, pr di 31, ex assistente di Valeria Marini, è stato salvato dall’intervento tempestivo degli agenti della Questura. Trasportato d’urgenza all’ospedale Niguarda, è ora ricoverato con una prognosi di 30 giorni, ed è piantonato dai poliziotti perché, quando si sarà ripreso, dovrà rispondere dell’accusa di omicidio premeditato aggravato dal vincolo di parentela…”.
Per me, per tutti, fu uno shock, una tragedia della disperazione. Fui assalito persino dalla rabbia: «Perché non ha chiamato,
se fosse solo venuto a casa mia e di Betta a mangiare una pasta, bastava poco, e la sua vita avrebbe preso un’altra strada».

Da allora non ho più saputo nulla di lui. Ho chiamato Valeria Marini, rimasta sempre sua amica, il silenzio. Poi Carlo Pignatelli, il grande stilista, suo amico, ma anche lui sembrava non sapere. Forse lo proteggevano dal giornalista. Chissà.

Ed eccomi con Dario, sospettato in un primo momento di omicidio premeditato aggravato dal vincolo di parentela… Accusa trasformata in omicidio colposo. Ora è qui, in casa mia, una casa non troppo aperta, ma sicuramente aperta a chi ha conosciuto una sofferenza estrema come la sua. Dario, nessuno del nostro ambiente ha saputo più nulla di te. Ora sei qui, fuori dal carcere, dopo soli tre anni e mezzo.
«Non si seppe più nulla di me. Era stato chiesto il silenzio stampa. Per cui a tutti voi è rimasto in mente il capo d’accusa: omicidio colposo. Ma poi fui accusato di un reato che in Europa esiste solo in Italia: istigazione al suicidio nei conforti di mia mamma.
Era una donna molto malata, afflitta da artrite reumatoide upica, cui avevano dato solo ue anni di vita».

E con tua madre avevi organizzato la vostra ultima serata insieme, in cerca della morte. Siete arrivati la sera in quell’albergo, l’Hermitage di Milano. «Un albergo che signifi cava molto per me perché era il quartier generale di Carlo Pignatelli, il grande stilista torinese per il quale avevo lavorato tanto e bene».

Perché morire insieme? «Eravamo, sia io, sia lei, annientati dalla depressione. Eravamo arrivati a quella conclusione disperata per la sofferenza di mia madre, per il suo stato, e io con lei». Una madre può decidere di togliersi la vita, ma sembra impossibile, troppo innaturale, che decida difarlo con il fi glio e che accetti che il figlio stesso si tolga la vita. «È una decisione che abbiamo preso insieme, pienamente consapevoli. Lei perché molto malata, soffriva tremendamente, in più era affetta dalla depressione, totale, e io, per lei, peggio di lei. Una depressione, allora, non curata a differenza di oggi. Vedevo tutto nero, hai ragione, se solo fossi uscito quella sera, se avessi mangiato una pasta con te…».
In più tu eri adorato da tutti, da Valeria, dai giornalisti, dai colleghi. «Grazie, era vero. Ma non bastava. Mia madre in quei giorni mi chiedeva di farla finita, di compiere quel gesto, per lei, con lei. E arrivammo all’Hermitage». C’eri stato da poco, ci avevi fatto andare a dormire Ornella Muti. «Sì, perché era ospite alla sfilata di Seduzioni Diamonds di Valeria Marini».

E hai organizzato quell’ultima sera come un evento: la macchina con autista affittata, la suite, bella, un paio di bottiglie dal bar. Poi, una volta chiusa quella porta… «Una volta chiusa la porta della suite c’è stato il distacco verso il mondo. La solitudine e la decisione di
farla finita. Insieme». Come hai vissuto quel momento, con disperazione, con rassegnazione? «Con rassegnazione. Mia madre era decisissima: era stroppo malata, il lupus, l’artrite reumatoide, l’abuso di farmaci antidolorifici, farmaci pesanti, per non sentire il dolore. Era una donna stupenda, la malattia l’aveva annientata. Era gonfi a dal cortisone, aveva i polsi, le ginocchia, le caviglie, bloccate, la schiena non si piegava più.
Le avevano applicato delle placche metalliche. Il lupus le aveva colpito anche il cervello». E ti ha chiesto la cosa più innaturale della terra per una mamma: morire con lei. Quello che colpisce è che tu, un ragazzo colto, laureato in scienze della comunicazione, le hai detto sì. «Ora ho capito, grazie alle persone che mi hanno curato, come la psicoterapeuta ed educatrice Marisa Secondi, che mi ha assistito subito, poi la psicoterapeuta Battistina Bertino, che mi segue ora e ringrazio.Allora io vivevo una vita a trecento all’ora e quando viaggi a quei ritmi e esplode anche solo una gomma l’incidente è devastante. È successo
così».
Torniamo a quella suite. Ai farmaci ingoiati, a tua madre che non risponde più: se n’era andata, forse finalmente aveva trovato quella pace che le mancava da decenni. «Fu allora che chiamai mio padre. “La mamma è morta, ora la faccio finita io”». E fu tuo padre a salvarti, da Torino, dove era, ha chiamato la polizia che ha rintracciato il tuo telefonino e ti ha trovato. Appena in tempo. «Mi trovarono incosciente. Riverso sul lavandino con la gola e i polsi tagliati, l’acqua facilitava il deflusso del sangue». Vedo ancora i segni di quel dramma sulla tua pelle. Sei stato un mese all’ospedale, poi a San Vittore.
«L’accusa cambiò subito da omicidio colposo a istigazione al suicidio».In pratica sul fronte dell’omicidio c’era l’assoluta innocenza a differenza di quello che si diceva in giro. «L’omicidio era stata solo una prima ipotesi. Poi l’omicidio colposo, San Vittore, per diversi mesi, quindi l’istigazione al suicidio».
Il carcere, come l’hai vissuto? «Come molti, ho trovato tanta umanità, anche amicizia. I carcerati mi hanno voluto bene. E una suora, suor Emma Paola Gentilini, le devo tanto. La prima volta che la vidi dissi “Madre, preghiamo insieme”. Ma lei mi rispose:
“Ora non pensare a pregare, pensa alle cose pratiche. Come stai? Di che cosa hai bisogno?“. Grazie, suor Emma Paola». Poi sei uscito? «Anche grazie alla mia avvocatessa, Flavia Pivano, un’amica di mia mamma, hanno capito che il mio posto non doveva essere quello e mi hanno mandato in un centro per la cura della depressione. Ho trovato prima una dottoressa strepitosa, Marisa Secondi, la mia rieducatrice e psicologa. Lì, sono rinato».
Oggi chi ti è vicino? «Mio padre Renzo, ma devo ringraziare tante persone anche del mondo dello spettacolo, un mondo che credevo mi avesse abbandonato e che invece mi è stato molto vicino. A partire da Valeria Marini, Carlo Pignatelli, Elena Barolo, Domenico
Zambelli, Pablo Ardizzone, Mietta, l’agente Paolo Chiparo, che mi è stato vicino prima e ora, visto che adesso lavoro per lui, tutte persone che hanno saputo restituirmi tanto affetto e tanto amore».
In un mondo dove molti pensano ci sia spazio solo per la superficialità, questa solidarietà è bellissima.In più tu sei anche un professionista capace. «Mi ha insegnato tanto Valeria Marini». Ora ti stai curando? «Certo, potrei anche non curarmi, non ho obblighi, ma mi curo». Cosa ti resta di tutto quel dolore che hai vissuto con tua madre. «Mi segue solo un’immagine: quella di mia madre che poco prima di morire e si accovacciasse a terra, mi ha guardato, forse in un momento di lucidità, con uno sguardo di speranza. E io oggi, per lei, per mio papà, vado avanti».

Roberto Alessi

Avanti