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Fashion week: dal circo all’impegno civile, quando la politica non conta un cavolo

Matteo Osso | 20 Giugno 2016

Milano

E scusate il francesismo. E’ appena finito il weekend più incasinato dell’anno, probabilmente: star holliwoodiane che si crogiolano al sole […]

E scusate il francesismo.
E’ appena finito il weekend più incasinato dell’anno, probabilmente: star holliwoodiane che si crogiolano al sole di Sicilia, urne bollenti nelle più grandi città e baraccone avviluppate in abiti improbabili a caccia di un like alle sfilate milanesi, dove tra feste e flash fotografici la moda ha ancora una volta dimostrato di saper fare tutto da sola.
Sarà scomodo da sentire e forse presuntuoso da dire, ma è così: il fashion system in Italia, dal punto di vista dei numeri conta quasi quanto l’acciaio o l’automobile, esistono in questo settore aziende che hanno in tutto il mondo lo stesso numero di dipendenti della Fiat, producono in Italia ed esportano in ogni angolo della Terra portando con se non solo il proprio marchio e il valore di uno stile che -i fatti parlano- fa la differenza, ma contribuendo molto più del calcio, del cemento armato o delle tette al vento di qualche mezza famosa a rendere il nome del nostro Paese grande, conosciuto, ma soprattutto associato all’idea di qualità e insostituibile riferimento di stile e bellezza. Tutto questo senza politica né politici.
Il lusso in questa ultima tornata di conteggi ha raddoppiato il giro d’affari, le aziende di abbigliamento si sono sapute reinventare per sopravvivere non solo alla crisi interna dei consumi, ma anche ai capricciosi diktat internazionali che impongono blocchi e filtri all’esportazione verso Paesi potenzialmente ottimi clienti. Per non parlare della concorrenza -più o meno corretta- di colossi dal PIL in crescita verticale, dove le materie prime vengono trattate senza alcuna garanzia di controllo sulla salute e lavorate da manodopera in condizioni prossime allo schiavismo.
Eppure la moda è ancora qua, qua arrivano da tutto il mondo per guardare, fotografare, commentare e soprattutto comprare, dando lavoro a qualche milione di italiani che tra la realizzazione, la gestione, la manutenzione di tutta la rete di punti vendita, la progettazione e la produzione di tessuti e capi, la distribuzione e la comunicazione campano -spesso molto più che dignitosamente- grazie a questo sistema. Tutto questo senza politica. Senza aiuti di Stato e senza voti di scambio. Avete mai sentito voi che le sarte di Valentino (che lui affettuosamente chiamava “petit main”) facessero sciopero? Eppure vi assicuro che non lavoravano meno dei metalmeccanici…
E siccome la moda, come bofonchiano i benpensanti vestiti dello stesso grigio delle loro anime povere, è niente altro che un carrozzone di depravati che tra una festa e l’altra decidono senza alcun fondamento quale deve essere il colore della prossima stagione, ecco che le sfilate prendono con coraggio anche il nobile ruolo della battaglia civile, fatta di provocazioni e di paradossi, ma essenziale nel processo di crescita di un Paese che, volente o nolente, deve confrontarsi con il resto del mondo.
Dean e Dan Caten, i gemelli fondatori del marchio Dsquared ne sanno qualcosa: arrivano dal Canada una ventina d’anni fa e si stabiliscono a Milano con un sogno da realizzare. Lavorando -e non aspettando il gratta e vinci- quel sogno lo realizzano, qui in Italia, creando un marchio che vende in tutto il mondo e centinaia di posti di lavoro, ristrutturando con rispetto e affetto un meraviglioso immobile che a Milano giaceva abbandonato per farne la propria sede ma anche il luogo di ritrovo dei visitatori che da tutto il mondo fanno la coda per un aperitivo sull’unica terrazza con piscina e vista panoramica in città.
Ebbene, questi due ragazzi che hanno tutto oggi scelgono di dare un contributo all’impegno per la dignità degli esseri umani, quegli stessi esseri umani di cui l’odio criminale solo pochi giorni fa ha fatto strage al Pulse di Orlando.
Tutto questo senza politica, e senza politici. Senza intellettuali e senza demagoghi. Semplicemente perchè era giusto farlo, per tutti, per tutelare anche il diritto di chi la pensa in modo diametralmente opposto.
Tutto questo, ancora una volta, senza politica né politici. Semplicemente rischiando il proprio, perchè era importante farlo.