Omicidio Meredith: la confessione shock del PM
A quasi due decenni dall’omicidio di Perugia, le confessioni dell’ex magistrato: tra errori procedurali, pressioni e la segnalazione di un…
A quasi due decenni dall’omicidio di Perugia, le confessioni dell’ex magistrato: tra errori procedurali, pressioni e la segnalazione di un nuovo (vecchio) nome mai considerato
Il rimorso del PM: “Meredith, giustizia incompiuta” A quasi due decenni dall’omicidio di Perugia, le confessioni dell’ex magistrato: tra errori procedurali, pressioni e la segnalazione di un nuovo (vecchio) nome mai considerato.
Sono passati diciotto anni, un’infinità di udienze e due assoluzioni definitive, ma sul delitto di Meredith Kercher la nebbia della verità negata non si è mai diradata. A riportare il caso al centro delle cronache, con un taglio inaspettato, sono le parole dell’ex pubblico ministero Giuliano Mignini, il magistrato che per primo sostenne l’accusa contro Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Le sue recenti dichiarazioni, rilasciate in un momento di bilanci amari, hanno il sapore di un’indiscrezione che scuote le fondamenta della sentenza: “Non è stata fatta giustizia, è una storia che non mi va giù”, ha confessato, ammettendo senza riserve che il finale di questa tragica vicenda lo tormenta ancora oggi.
La rivelazione più sorprendente riguarda l’ormai famoso interrogatorio di Amanda Knox. Mignini lo definisce, senza mezzi termini, un “errore”, un’ammissione che suona come una tardiva autocritica sulla gestione di una delle fasi più controverse delle indagini. Fu proprio in quell’occasione che l’allora studentessa americana, pressata dalle circostanze e dai metodi della polizia, fece il nome di Patrick Lumumba, il datore di lavoro poi scagionato e per cui Amanda è stata definitivamente condannata per calunnia. Un passo falso iniziale che, secondo l’ex PM, ha incanalato il processo in un solco problematico e ha fornito argomenti inesauribili alla stampa estera che lo dipingeva come “inquisitore”.
Ma il rammarico del magistrato si estende oltre le procedure. Mignini parla di “diversi fattori fortuiti che cambiarono il processo”, lasciando intendere come una serie di contingenze e, forse, di inefficienze investigative abbiano favorito l’esito finale per Knox e Sollecito. Emerge un quadro di forte pressione emotiva e professionale: l’ex PM confessa di “non essere stato sereno” nel momento cruciale in cui dovette formulare la richiesta di pena, segno evidente di un disagio che andava oltre il tecnicismo legale.
Un “nuovo nome” mai considerato
C’è di più. In una mossa che ha tutta l’aria di un colpo di scena postumo, Mignini ha rivelato di aver recentemente segnalato alla Procura di Perugia l’esistenza di un “nuovo nome” – o meglio, di una persona mai adeguatamente considerata – che sarebbe “scappata all’estero dopo il delitto”. Una soffiata, un’indiscrezione raccolta chissà dove e chissà quando, che l’ex magistrato non esita a ritenere fondata, sostenendo che se avesse avuto questi elementi all’epoca, “le indagini avrebbero preso un’altra direzione” e molte persone “avrebbero taciuto per paura”.
A distanza di anni, la conclusione di Mignini è amara: la “giustizia incompleta” che ha portato alla sola condanna di Rudy Guede, l’unico reo confesso (anche se in concorso con ignoti) e ormai tornato in libertà, è come una decisione “passata sopra le nostre teste”. L’ex PM resta convinto che la “presenza della Knox e quasi certamente di Sollecito” sulla scena del crimine fosse accertata, pur non potendo chiarire il loro esatto ruolo. E così, tra autocritiche procedurali e nuovi, inquietanti spunti investigativi, il delitto di Perugia torna a tormentare le coscienze.
A cura di Dario Lessa
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