
Un racconto di Luca Fiocca – Incontro Magico
Luca Fiocca è autore del libro “Se è tortora all’acqua torna”
Lo scrittore Luca Fiocca, autore del libro “Se è tortora all’acqua torna”, in un racconto che ci ricorda il film con Florinda Bolkan e Massimo Ranieri, storia di un amore inespresso e per questo ancora più prezioso.
Il nuovo racconto di Luca Fiocca
Erica è un’alchimia rara, l’Eva promessa che in ogni donna mi è mancata, un “apriti Sesamo” di tutte le mie gioie. Erica è un movimento dell’anima, un fugace battito di albine ciglia, un impalpabile attimo che fugge via, riflesso in un diafano fremito d’ala di farfalla, una scossa lieve di cuore che pulsa, una stilla di mercurio che sguscia tra le dita, l’inezia che fa traboccare la misura.
Erica è un soffio d’alito che ha gusto d’albicocca, un afrore di pesca gialla immersa nel vino, una vampata afrodisiaca di una bottiglia d’annata appena sbocciata.
Erica è una seta che fruscia, un lieve brivido di febbre, un tremore di frasche smosse dal respiro di uno zefiro, una fallace scossa di pioggerella estiva.
Erica è un rotolar di ciottoli che il mar trastulla nel suo lento fluire e rifluire, un’eco metodica di onda che una caletta infrange, una calma apparente foriera di tempesta.
Era intenta a leggere minuziosamente la cartella clinica di una persona a lei molto cara, seduta composta, in disparte, nella hall di una clinica privata, quella mattina primaverile di alcuni anni fa: Erica, un’avvenente signora quarantenne ancora intatta tra le unghie del tempo, non pensava ad altro che a intravedere, tra le righe di una dettagliatissima relazione medica, uno spiraglio di speranza.
Dopo una mia domanda alla quale mi sentì rispondere che la situazione andava migliorando progressivamente, incalzai con fare prudente e riservato parlandole del perché mi trovassi anch’io lì e offrendomi, per l’occasione, di accompagnarla, se mai ne avesse avuto bisogno, in considerazione del fatto che era forestiera.
Accettò felice della mia disponibilità anche perché la giornata era caratterizzata da un sole limpido e terso che rendeva quell’inizio di primavera lu- minoso e invitante.
Raggiungemmo in auto il centro storico di Lecce e proseguimmo a piedi, avventurandoci in una lunga passeggiata rigenerante che, tra le strette vie i cui basoli secolari amplificavano il ticchettio dei nostri tacchi, aiutò entrambi a dimenticare i rispettivi cattivi pensieri. Sembravamo rapiti dalle facciate dei palazzi color dell’aria, color antico, impreziositi da una patina conferita dal più potente degli scultori, il tempo, che aveva loro donato il riflesso degli anni, senza scalpello né mazzuolo, ma con la pioggia, il chiaro di luna e il vento del nord, aggiungendo qualcosa d’indefinibile e di infinitamente pittoresco e sublime.
Palpitava in essi la vita dei secoli, vita che non abbandona mai le opere umane fino al loro disfacimento… Mi fermai un istante a riflettere e, guardando Erica dritta negli occhi, mi affiorò alla mente un pensiero di Anatole France: «Queste case, sì piccole al sole, che posso nasconderle tutte soltanto stendendo una mano, hanno tuttavia ospitato secoli di amore e di odio, di piacere e di sofferenza. Custodiscono segreti terribili, la sanno lunga sulla vita e la morte. Ci direbbero cose da piangere e da ridere se le pietre parlassero: ma le pietre non parlano che a coloro che sanno comprenderle».
Erano le dodici in punto d’un mitico “mezzogiorno di fuoco” e lo ricordo bene perché, a quell’ora esatta, un vecchio megafono diffondeva, come un filo d’erba, in piazza Sant’Oronzo e nelle strade limitrofe, il canto ammaliatore d’un inimitabile e inconfondibile usignolo, Tito Schipa, sulle note dell’Ave Maria di Schubert.
Tra i ricordi sfocati dei racconti di mio padre, immaginai cos’era stato il suo concerto d’addio tenuto il 27 novembre del 1962 a New York, alla venerabile età di settantatré anni, nella gremitissima Town Hall, in occasione del quale si era dovuto ricorrere a sedie aggiunte fin sul palcoscenico per accontentare una platea in delirio che lo osannava.
I più severi critici d’America avevano così commentato quella leggendaria serata: «Della sua voce non è rimasto nulla, ma, e questo è un grosso ma, la sua voce ha ancora stile e comunicativa se pur si è trasformata in un abile sussurro.
[…] Qualunque cosa cantasse, era assoluto padrone del suo mezzo, un artista supremo con un potere ipnotico sulla platea…Era come un re che ritorna dal suo esilio per ritrovarsi ancora monarca assoluto di tutto il territorio».
Pensai, dentro di me, quanto fossi fortunato a essere ammesso a godere di queste silenziose orge della meditazione. Le dissi, con l’occasione, che era una donna meravigliosa, e che sembrava fatta apposta per far girar la testa a chiunque avesse avuto la fortuna, e io la ebbi, di conoscerla a fondo; il resto venne da sé…