Intervista con Nino Marino, CEO di Pistì, che con l’amico Vincenzo Longhitano ha creato un’impresa conosciuta nel mondo. Partendo da «sotto zero» con il prodotto locale di Bronte, il pistacchio, misconosciuto ai più. «Oggi siamo in 350 persone e produciamo creme, pesti, dolci, poi distribuiti in decine di nazioni», ci dice. In più hanno otto figli in due e non hanno ancora 50 anni. Dove arriveranno?

L’intervista con il CEO di Pistì

Pistì è un nome ormai famosissimo in tutto il mondo, che produce creme, torroni, panettoni e colombe (anche in chiave estiva), tutti prodotti che vedono nei pistacchi, in particolare quelli di Bronte, la cittadina siciliana, il segno distintivo di una tradizione antica, reinventata dalla creatività di due imprenditori geniali, che nel giro di 27 anni oggi distribuiscono, come sapremo, in 71 paesi, con un fatturato impressionante di 200 milioni di euro.

Ma credo che il numero più interessante sia questo: la loro creatività oggi dà lavoro a 350 persone, significa che centinaia di famiglie oggi si mantengono, mandano a scuola i loro figli, pagano i loro mutui grazie a Pistì e queste sono le soddisfazioni che contano, o dovrebbero contare, per chi fa impresa.

E tutto questo a Bronte, una cittadina di 18 mila abitanti alle falde dell’Etna, in Sicilia dove il tasso di occupazione purtroppo rimane debole rispetto alla media nazionale. È una storia che meriterebbe di essere studiata a scuola da chi studia e ha già deciso di seguire la fuga dei cer velli all’estero.

Ho voluto così conoscere Nino Marino, il CEO di Pistì, quello che 27 anni fa, poco più che ventenne, con un coetaneo, Vincenzo Longhitano, ha deciso di buttarsi “anema e core”, perché senza passione non si va da nessuna parte, in questa impresa. In anni, in cui, come ha scritto nel saggio “Torniamo a industriarci” il professor Riccardo Gallo, «in Italia le imprese sono state saccheggiate dai loro azionisti. E dal 1998 hanno azzerato gli investimenti».

E il 1998 è l’anno in cui quei due ragazzi, che oggi hanno 48 anni, si sono incontrati per caso, hanno solidarizzato, e si sono incaponiti per creare un’azienda propria, puntando sul prodotto locale di Bronte, il pistacchio, un prodotto allora conosciuto e sconosciuto insieme, e che giorno dopo giorno son riusciti a rendere popolare non solo in Italia, ma proprio nel mondo. Ed eccomi con Nino Marino, voce simpatica, faccia da attore, grinta e insieme gentilezza.

Leggendo questo processo di lavoro sembra di vivere il sogno americano, ma a Bronte una cittadina famosa per i pistacchi e anche per una pagina buia del nostro Risorgimento, quando Nino Bixio (il vice di Garibaldi) attaccò i contadini ribelli contro i latifondisti.

«La scelta della Sicilia nasce dalle nostre origini, e dall’amore per la nostra terra. Io sono legato alla Sicilia, ma non sono di Bronte, dove c’è l’azienda, vivo a Brolo, nel Messinese che dista da Bronte una sessantina di chilometri. Ma 27 anni fa ho iniziato questa avventura a Bronte con il mio amico e socio Vincenzo, lui sì che è di Bronte».

Quando vi siete conosciuti quelli erano anni in cui i ragazzi come voi, sognavano New York, il “continente”, Milano, tanto è vero che dalla metà degli anni 90 cresce in Sicilia il numero degli emigrati. Voi invece…

«Invece Vincenzo ed io siamo partiti da un sogno, e casualmente avevamo lo stesso sogno, non il sogno americano come altri ragazzi, ma un sogno siciliano. Volevamo fare impresa, volevamo diventare imprenditori».

Dall’esterno la Sicilia sembrava una scelta opportuna?

«Ne eravamo convinti: in Sicilia si poteva fare molto e lo si può fare ancora oggi, si può ancora fare tanto, ieri come oggi. I giovani dovrebbero rendersene conto, questa è una terra che può essere generosa, basta saperla interpretare».

Colpisce che abbiate puntato sui pistacchi di Bronte: pensando ai prodotti tipici siciliani ancora oggi vengono in mente olio, dolci di mandorle, formaggi, conserve, turismo, pesce.

«Abbiamo puntato sul pistacchio perché era ed è un prodotto ancora poco conosciuto, non solo ovunque, ma anche in Sicilia. Trent’anni fa vedevamo che nei bar e nelle pasticcerie siciliane si cominciavano a vedere prodotti a base di pistacchio».

I pistacchi verdi di Bronte sono anche Presidio slow food, non a caso è soprannominato l’Oro Verde per il suo alto valore commerciale. «Vero, ma erano poco usati in cucina. Pensa che a 20 chilometri da Bronte c’era chi non li conosceva, c’è ancora chi non sa che i pistacchi sono una pianta».

Non lo sapevo nemmeno io: leggo che è un albero che raggiunge un’altezza di 6-10 metri. «I pistacchi sono semi. Quando abbiamo iniziato a produrre prodotti a base di pistacchio, io partivo con la valigia piena di scatolette e vasetti (una valigia che tengo preziosa e ho ancora, perché da lì è partito il nostro viaggio nel mondo) e ho iniziato a prendere appuntamenti in giro per l’Italia, prima, a Milano, dove c’erano i grandi gruppi di distribuzione, e poi per l’Europa, rincorrevo i buyer, i compratori».

Quella valigia conteneva anche i vostri sogni e, penso che il tuo sorriso nasconda anche tutti i «no grazie» e i «le faremo sapere» che ti sarai preso. Ma il motto era Mai, non mollare mai, come canta Gigi D’Alessio.

«Mai, perché credevo in quei campioni dei nostri prodotti. Arrivavo a Milano, mi affittavo una stanza in albergo e iniziavo a proporre, a chiamare, a cercare. Poi, dai e dai, i primi ordini, la fiducia cresceva. Poi la svolta, i primi appuntamenti all’estero, prima sono riuscito ad avere un appuntamento a New York con un distributore, poi son arrivato perfino in Australia».

E siete partiti da zero tu e Vincenzo o qualcuno vi ha aiutato con i soldi? «Da sotto zero. Per partire ci siamo riempiti di debiti. Per fare i primi prodotti ci siamo indebitati, cambiali, assegni post datati».

Non vi hanno aiutato i vostri genitori?

«Loro avevano già le loro attività molto impegnative, mio padre commercia in carni, la famiglia di Vincenzo si occupa di prodotti ortofrutticoli. Ce la siamo cavata da soli».

Le banche vi hanno aiutato?

«Ma quali banche!? Siamo andati avanti a cambiali. Dobbiamo invece dire grazie ai fornitori che hanno dato fiducia a due ragazzi pieni di entusiasmo di voglia di fare. Abbiamo fatto qualche assegno post datato, qualche promessa sempre mantenuta e ce l’abbiamo fatta. Poi, ma solo poi, sono arrivate le banche».

Come sempre le banche danno soldi a chi già ce li ha.

«La prima volta che siamo andati in banca, da Unicredit, a chiedere un prestito ci hanno riso in faccia: “Ma senza soldi dove volete andare?”».

Come dare fiducia ai giovani… Tu e Vincenzo però avete tenuto sem- prer duro.

«E dal primo momento. Pensa che ci siamo incontrati per caso, a una cena da amici, e ci siamo trovati subito. Siamo andati poi insieme a una fiera, io per l’azienda della mia famiglia e lui per la sua. E lì abbiamo capito che potevamo fare insieme qualcosa. La sua famiglia aveva anche un pistacchieto, una coltivazione di pistacchi. In qualche modo lui aveva già un po’ l’idea di che cosa era».

È nata quasi una moda: ormai si parla spesso di prodotti al pistacchio.

«Con un po’ di presunzione posso dire che questa moda del verde pistacchio nel mondo gastronomico l’abbiamo creata noi. L’abbiamo portato in Australia quando pratica- mente sulle tavole e in cucina non esisteva la crema di pistacchio. E lo stesso è successo a New York. Non conoscevano né il pesto né la crema di pistacchio, cosa che oggi sembra impossibile. Abbiamo portato noi in quei paesi il torrone di pistacchio, in Inghilterra, in Francia, in Europa, in tutti i continenti.

I numeri si vedono.

«Siamo in 350 a lavorare alla Pistì, esportiamo in 72 paesi, e ti anticipo che quest’anno fattureremo 200 milioni di euro».

Sono numeri impressionanti. Negli anni dopo i primi guadagni potevate anche perdervi, litigare, rovinare tutto. Avete avuto anche disciplina.

«Veniamo fuori tutti e due da famiglie classiche, siciliane, attaccate al lavoro, alla famiglia. Mio padre in ferie non è andato mai, il papà di Vincenzo si regalava solo una settimana al mare all’anno. Il lavoro era nel nostro dna famigliare».

Avevate una buona scuola già in casa.

«Ottima e con una voglia di fare, di continuare. In più Vincenzo ed io abbiamo capito da subito che ognuno deve avere i suoi spazi, abbiamo creato un equilibrio basandoci su una fiducia totale».

In questi anni avete avuto modo di farvi una famiglia?

«Una super famiglia: io ho quattro figli, e anche Vincenzo ha quattro figli».

Siete due gemelli del gol, alla faccia della crescita zero, otto figli in due.

«La mia più grande ne ha 26, e lavora in un’agenzia di marketing, poi ne ho uno di 20, un altro di 13 e il piccolo di dieci, quasi 11».

Sei anche coraggioso: hai avuto una figlia proprio quando ti indebitavi per creare l’azienda.

«È nata l’azienda, è nata mia figlia, nulla di programmato. È la passione per la vita che ha scelto per noi e se si segue la voce del cuore, della passione, e si punta sulle proprie forze non si sbaglia mai».